martedì 21 aprile 2009

LA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BEATRICE (ZANZANU')

Giovanni Beatrice detto Zanon (o Zanzanù)
Nato a Gargnano il 23 aprile 1576 – Morto a Tignale il 17 agosto 1617)

Giovanni Beatrice nacque a Gargnano (Brescia) nell'aprile del 1576. Il padre Giovanni Maria Beatrice, oste e commerciante, apparteneva ad una famiglia di Gargnano, centro allora appartenente alla cosiddetta Magnifica Patria della Riviera, il cui consiglio generale riuniva i rappresentanti delle numerose comunità poste sulla riva occidentale del lago di Garda. Giovanni era anche conosciuto come Zuanne Zanon, nome che successivamente - con l'uso – si sarebbe contratto in quello più conosciuto di Zanzanù.

Agli inizi del Seicento la Riviera occidentale del Garda viveva una realtà politica piuttosto complessa. Amministrata dal Provveditore e Capitano inviato da Venezia, ma anche, nel settore della giustizia civile, da un podestà eletto per antica prerogativa dalla città di Brescia, la Riviera del Garda era caratterizzata sia per la floridezza economica, che per le tensioni sociali che animavano la competizione economica e politica dei suoi ceti dirigenti. La rete di relazioni delle parentele locali e le sue connessioni clientelari si annodavano inestricabilmente in un centro come Salò, che, però, più che costituire un capoluogo in grado di estendere il suo controllo sul rimanente del territorio, rappresentava tendenzialmente il punto di raccordo di numerose variabili sociali e politiche.

E’ in questo ambito territoriale e istituzionale che nasce dapprima l’epopea di Zanzanù e poi, successivamente, il mito che ne avrebbe tramandato le vicende e le gesta sino ai nostri giorni.

Zanzanù compare sullo scenario giudiziario il 24 marzo 1602, nel corso di una sfilata di soldati che si teneva a Gargnano (le cosiddette cernide). Zanzanù è tra costoro, così come Francesco Sette di Maderno, fratello di Giacomo Sette detto il Chierico, suo nemico giurato. Zanzanù ferisce il rivale, mentre lo zio Giovan Francesco Beatrice detto Lima uccide il compagno che tentava di vendicarlo. L’aggressione e il ferimento sembrano non premeditati e forse erano l’estrema conseguenza di un’offesa arrecata ai Beatrice sul piano dell’onore. I due Beatrice vengono banditi da tutti i territori della Repubblica e devono vivere nella latitanza, in attesa che venga conclusa una pace tra le due parentele. Questa difatti viene stabilita l’anno seguente nel monastero di San Francesco di Gargnano creando così il presupposto di un loro ritorno nei territori da cui erano stati banditi.

Imprevedibilmente però, nel maggio del 1605, Giovan Maria Beatrice, padre di Zanzanù, viene proditoriamente ucciso dagli avversari. Una vicenda che nella sua fase iniziale sembrava non essere diversa dalle molte altre che costellavano i conflitti di faida dell’epoca, si dilata così in maniera inusitata, imboccando una via senza ritorno. Giovanni e lo zio Giovan Francesco, insieme ad alcuni loro sostenitori e parenti, scatenano difatti una serie ininterrotta di vendette, costellate da omicidi, ferimenti, agguati e ritorsioni senza esclusione di colpi. Le severe leggi bannitorie emanate dalla Repubblica, che prevedevano l’impunità per gli uccisori dei banditi e ricchi premi a coloro che li avessero catturati o uccisi, accentuarono inesorabilmente il conflitto, che pure nel 1607 vide l’uccisione di Giacomo Sette, l’odiato rivale.

Una serie cospicua di sentenze di bando erano state pronunciate dal 1605 al 1609 dalle magistrature veneziane contro quella che ormai era conosciuta come la banda degli Zannoni, inseguita inutilmente dai temuti soldati corsi inviati ripetutamente, ma inutilmente, dalle autorità per debellarla, anche con l’appoggio dei loro numerosi nemici.

Nonostante la dura azione repressiva, condotta quasi senza tregua, la banda degli Zannoni, come non nascondevano gli stessi provveditori veneziani nei loro dispacci, aveva potuto agire con tanta efficacia anche grazie all’aiuto e protezione prestati dai numerosi sostenitori e parenti su cui essi potevano contare in tutta l’Alta Riviera. Una parte della popolazione, probabilmente, non dimenticava inoltre l’azione disonorevole dei loro avversari che si erano macchiati di un delitto così disonorevole quale la rottura di una pace stabilita in un luogo sacro.
Ma ciò che non poté ottenere la dura reazione giudiziaria e militare, fu comunque raggiunto dai numerosi cacciatori di taglie che ambivano di riscuotere i numerosi premi e taglie posti sulle teste dei banditi. Nella notte del 13 febbraio 1609 un gruppo di banditi e di loro sostenitori che da tempo erano appostati nel porto di Riva del Garda, assalirono di sorpresa la banda degli Zannoni, decimandola quasi per intero. Giovan Francesco Beatrice ed altri membri della banda vennero uccisi. Zanzanù si salvò sorprendentemente gettandosi nelle gelide acque del lago, sfuggendo nei giorni seguenti pure all’assalto di un compagno della banda, lo stesso che, agendo di concerto con il Provveditore veneziano, aveva informato gli assalitori dei loro movimenti.

Quel tuffo nel lago fu l’avvio dell’epopea di un bandito che pure, negli anni precedenti si era mosso, sotto la guida dello zio, nell’inesorabile ricerca della vendetta. Un’epopea che si caratterizzò da subito con una serie di azioni eclatanti e l’avvio del mito contrassegnato dall’imprendibilità e dal coraggio. Così di certo una parte della popolazione cominciava a percepirne l’immagine, nonostante le severe sentenze pronunciate dalle magistrature veneziane, che lo accusavano pure di delitti come i furti e le rapine, allora ritenute oltremodo infamanti.

Un’immagine che cominciava a delinearsi estremamente pericolosa, soprattutto nel momento in cui essa finiva inevitabilmente per riverberarsi negli aspri conflitti che dilaniavano pure il ceto dirigente di Salò e delle famiglie che più si identificavano nel Consiglio generale della Magnifica Patria. Tant’è che, quando, il 29 maggio 1610, il podestà di Salò Bernardino Ganassoni venne platealmente ucciso da alcuni suoi avversari nel Duomo di Salò, durante una solenne funzione religiosa, fu facile gioco coinvolgere Zanzanù, il quale fu accusato di essere uno dei principali autori dell’omicidio. Egli fu colpito da una severissima sentenza pronunciata dal Consiglio dei dieci, che tra l’altro prevedeva l’abbattimento della sua casa di famiglia posta in Gargnano, con la confisca di tutti i suoi beni. Il clima incandescente di quei mesi spinse inoltre le supreme autorità veneziane ad inviare in Riviera, Leonardo Mocenigo, il Provveditore generale eletto dal Senato per reprimere il banditismo nei territori posti oltre il Mincio. Giunto a Salò nell’autunno del 1610, il Mocenigo in realtà ripristinò gli equilibri infranti dalle tensioni insorte nei due anni precedenti e dall’omicidio del Ganassoni. La sua azione repressiva si mosse però soprattutto nei confronti di Zanzanù e dei suoi sostenitori, tra cui la moglie che venne bandita. Inoltre ordinò l’abbattimento della sua casa, così come era stato ordinato nella sentenza del Consiglio dei dieci.

L’azione repressiva del Mocenigo mirava a fare terra bruciata intorno all’imprendibile bandito, ma ne provocò la dura reazione. Con una serie di attacchi a sorpresa, Zanzanù scese ripetutamente a Gargnano e nelle comunità limitrofe, scagliandosi contro i suoi nemici, che per lo più appartenevano al ceto dei notabili locali. Ed è a partire da questi anni che egli applica ripetutamente la pratica del sequestro di persona, con il fine di indebolire gli avversari e di procacciarsi di che vivere. Il caso più clamoroso si registra nel settembre del 1611, quando Zanzanù entra nella casa del possidente Stefano Protasio, conducendolo poi sui monti circostanti e nascondendolo in alcune grotte di cui il territorio ancor oggi è ben provvisto. Il rapimento e la detenzione del Protasio, con la sua successiva liberazione dietro il pagamento di un ingente riscatto costituivano una vera e propria sfida nei confronti delle autorità e del notabilato locale, che percepivano ormai il bandito come una minaccia incombente di cui ci si doveva assolutamente liberare. Il Consiglio dei dieci pose così una taglia cospicua sul suo capo, accogliendo pure senza riserva le proposte che giungevano da parte di alcuni cacciatori di taglie di eliminarlo con tutti i mezzi possibili.

Di fronte al clima incandescente e pericoloso venutosi a creare dopo il rapimento del Protasio, Zanzanù decise di abbandonare definitivamente la Riviera del Garda, trasferendosi nei territori limitrofi ed infine nel ducato di Parma, dove servì come condottiero militare al servizio del duca locale. Molto probabilmente nelle sue intenzioni si trattava di un addio definitivo ai luoghi in cui, per quasi un decennio, aveva cercato, quasi senza tregua, di condurre a termine la sua azione di vendetta, inserendosi in una spirale di inusitata violenza, che aveva infine travolto tutta la sua famiglia.

Nella tarda primavera del 1615 Zanzanù è però segnalato nuovamente nei territori dell’Alta Riviera. Molto probabilmente l’imminente crisi tra Venezia e l’Austria che, nell’estate dello stesso anno, sarebbe sfociata nella guerra di Gradisca, l’aveva indotto a ritornare sui luoghi natii. Da subito i provveditori veneziani segnalano allarmati la sua presenza e la rinnovata pratica del sequestro da lui condotta contro i suoi avversari. E non hanno esitazioni ad assumere provvedimenti che costringano le comunità a combatterlo, così come a perseguire i numerosi sostenitori che l’avevano accolto con favore al suo ritorno. Ma Zanzanù probabilmente vuole rompere con il suo passato e nel giugno del 1616 presenta una supplica al Consiglio dei dieci, in cui ripercorrendo le fasi salienti della sua vita, chiede di potere essere liberato dai suoi numerosi bandi e di ritornare nei luoghi natii in cambio dell’offerta di servire, insieme ad alcuni suoi compagni, come uomini d’armi nella guerra allora in corso in Friuli.

La proposta venne volutamente fatta cadere, anche perché Zanzanù aveva avanzato la sua richiesta ricorrendo ad una sorta di taglieggiamento nei confronti delle comunità della Riviera, le quali avrebbero dovuto contribuire alle spese necessarie, in cambio della tranquillità di cui avrebbero potuto godere dopo la sua partenza.
Zanzanù continuò così le sue incessanti attività di disturbo alternando la sua presenza nei monti circostanti l’Alta Riviera, con frequenti sconfinamenti nei territori confinanti.

Nell’agosto del 1617 è di nuovo in Riviera, insieme ad altri cinque uomini raccolti in tutta fretta. Il suo obbiettivo è quello di scendere a Tignale e di rapire un notabile locale su cui aveva posto una taglia cospicua di denaro. La presenza del Provveditore Giustiniano Badoer, che si era recato in Alta Riviera per controllare, i confini e i passi che conducevano nei territori nemici, rallenta i movimenti dell’esiguo gruppo armato. Per tutto il giorno e la notte del 16 agosto Zanzanù attende nei monti sopra Tignale in attesa della partenza del provveditore. Il clima non era di certo favorevole. In tutta l’Alta Riviera la popolazione adulta maschile era stata militarizzata agli ordini dei notabili locali e provvista di armi. Inoltre si era sparsa in tutta la zona un’inquietudine nei confronti di una possibile e temibile incursione delle truppe nemiche. Una minaccia che si calava nel clima di trepida attesa religiosa contrassegnata dai riti e dalle processioni che miravano ad ottenere un intervento divino volto a porre fine all’interminabile siccità.
All’alba del 17 agosto 1617 Zanzanù scende dai monti ed entra nella casa di Zuanne Cavaliere, il ricco possidente di Gardola di Tignale sul quale aveva posto una grossa taglia in denaro. La reazione della popolazione è immediata e sorprendente. Gruppi di armati, guidati dai loro capi si gettano all’inseguimento di Zanzanù e dei suoi uomini che hanno con sé l’uomo rapito dalla sua casa. Tutti i sei villaggi che compongono la comunità di Tignale si muovono, come in un disegno preordinato, per tagliare la strada ai banditi. La lunga attesa del nemico arciducale e il controllo esercitato dai capi locali sono ora fattori decisivi che sembrano muoversi all’unisono contro il famoso bandito. Gardola, Aer, Olzano, Piovere, Oldesio e Prebione: ciascuno dei villaggi, con i suoi gruppi di armati sa cosa deve fare, come in un rito ripetuto altre volte.

Zanzanù intendeva probabilmente rifugiarsi in uno dei numerosi cunicoli che affiorano tra quei monti, ma l’inaspettata reazione dei sei villaggi e l’improvvisa fuga dell’ostaggio, lo costringono a puntare rapidamente verso il confine. Non c’è scampo. Gli uomini di Prebione, già sopraggiunti nei sentieri più elevati, li costringono a rifugiarsi in un anfratto di località Visine. E’ uno scontro aspro e violento, con diversi morti per entrambe le parti, ma anche inframmezzato di lunghi silenzi lancinanti nella calura estiva. Zanzanù è rimasto con soli due compagni, acquattato in quell’angusto anfratto, protetto da pietre e zolle disposte alla meglio. Non manca molto all’imbrunire e con il favore della notte è forse possibile tentare una sortita. Anche gli uomini di Prebione temono questa eventualità. Uno di loro ha un’idea geniale: è necessario procurarsi un carro agricolo e munirlo di assi nella parte anteriore. In questo modo si avvicinano pericolosamente agli avversari. Impossibilitati a difendersi, i tre uomini balzano fuori improvvisamente e s’inoltrano precipitosamente giù, lungo uno dei tanti ruscelli che scendono a valle. Imboccato un sentiero di mezza costa che conduce verso i sottostanti villaggi la speranza sembra riaffiorare. Ma inutilmente: a sbarrare loro la strada sono giunti gli uomini di Gargnano e devono per forza arretrare. La vallata delle Monible (Luné) sembra offrire un riparo, tra quei due ruscelli che tagliano il fondo polveroso del sentiero. E’ tutto inutile. Da sopra, e da tutto intorno, sopraggiungono gli uomini di Tignale. Non c’è scampo e gli ultimi colpi di archibugio lasciano Zanzanù e i suoi due compagni esanimi a terra. I loro corpi, il giorno seguente, vengono trasportati a Salò per la richiesta delle taglie e dei premi. Come era previsto dalle leggi gli uomini delle due comunità devono comprovare con testimonianze l’avvenuta uccisione di Zanzanù e dei suoi compagni. Pure uno dei banditi è sopravvissuto, ferito nello scontro delle Visine. Tutte le loro testimonianze sono raccolte dal giudice inviato da Salò. Qualcosa non convince però quest’ultimo: sono molti gli uomini della comunità morti nel corso dello scontro. Chi li ha uccisi? Chi si è poi impossessato delle armi e dei vestiti dei banditi? Chi, infine, ha ucciso Zanzanù in quella valletta, tra i due ruscelli? Il giudice non troverà risposta certa a tutte queste domande. Domande del tutto legittime: Zanzanù negli anni precedenti aveva goduto di favori e di protezioni. La sua immagine non coincideva di certo a tutto tondo con quella offerta dall’azione repressiva delle autorità veneziane e locali.
Ma l’epopea di Zanzanù non sarebbe forse entrata nella dimensione del mito in grado di superare le barriere del tempo e giungere sino a noi, se un altro evento, non così scontato, non si fosse verificato. L’anno seguente i notabili della comunità di Tignale pensarono bene che quanto era accaduto meritasse di essere ricordato e si dovesse, comunque, ringraziare la Madonna di Montecastello, la cui chiesetta sovrastava misericordiosa i sei villaggi. Fu commissionato un grande quadro che come ex-voto dovesse rappresentare il miracolo avvenuto il 17 agosto 1617. La consacrazione della grande vittoria sanciva così la grande impresa della comunità e la continuità degli equilibri sociali minacciati dalle continue incursioni di Zanzanù. Il grande dipinto, che ancora oggi è conservato a Gardola, nel santuario della madonna di Montecastello, è attribuito al pittore Giovan Andrea Bertanza. La sequenza filmica degli eventi è riportata con grande maestria e forse il pittore volle rappresentarsi in quell’uomo che, quasi sorpreso ed attonito, fissa chi ammira il dipinto. Con l’ex-voto di Montecastello l’epopea di Zanzanù non cadde nell’oblio e, di generazione in generazione, è giunta sino a noi. Il pittore, di certo, esaudì la volontà dei notabili della comunità. ma seppe anche rappresentare quell’immagine che aveva cominciato ad assumere le sembianze del mito. Zanzanù è ripreso in tutte le fasi del combattimento, sino alla morte. La sua fuga dall’anfratto in cui s’era rifugiato con i suoi uomini è descritta nei minimi particolari. La sua corsa affannosa verso valle, con a fianco il suo compagno, sul cui viso è impressa la morte ormai imminente, è tracciata ricorrendo a una descrizione dai toni epici. Il trasbordare rumoroso degli avversari, con fitti lanci di pietre e il frastuono rosso delle archibugiate, contrasta con la solitudine disperata e la fine del fuorilegge.

Il suo corpo abbandonato, disteso ai piedi di un grande macigno, è lambito da uno dei due ruscelli che costeggiano la valle delle Monible. Tutto sembra solennemente ruotare attorno a lui, anche i gruppi compatti degli uomini della comunità, protesi aggressivamente in avanti con i loro archibugi puntati.

Martire o truce e violento bandito? Il nostro pittore volle comunque essere molto preciso e rimanere aderente al dettagliato resoconto dei protagonisti della battaglia. Rappresentazione retorica dell’impresa della comunità e della grazia divina ad essa concessa tramite l’intercessione della Madonna di Montecastello, il dipinto esprime altresì una sorta di grandioso rito sacrificale, culminante con la morte di Zanzanù, il cui corpo giace inerte, circondato dagli attaccanti, proprio al centro del maestoso ex-voto.

Il pathos che attraversa il dipinto investe in tutta la sua grandezza lo stesso bandito e i suoi compagni che hanno saputo combattere sino alla morte. La loro non è una rappresentazione del Male: la tragicità dell’evento, rischiarato dalla grazia divina, sembra averli posti, anche se da sconfitti, in quella stessa aura di eroismo che anima la tensione dei corpi degli attaccanti. In realtà è Zanzanù il vero protagonista di quel giorno memorabile. Le sue imprese precedenti sembrano riscattarsi in quella morte tragica e inesorabile. Il nostro pittore, inconsapevolmente, esprime magistralmente nella sua opera tutta l’ambiguità insita nell’immagine del bandito. Il dipinto doveva magnificare il valore della comunità, indicare a tutti la tenacia e l’ardimento dei suoi abitanti e l’aiuto loro porto dalla grazia divina. In realtà si costituì pure nei secoli come veicolo di trasmissione di un’epopea che già aveva cominciato ad assumere la dimensione del mito nel corso della vita di un uomo che il gioco crudele del destino aveva trasformato in un truce e crudele bandito.

Claudio Povolo, Vicenza, 16 aprile 2009

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(*) Questa nota biografica è stata realizzata dal professor Claudio Povolo docente di Antropologia giuridica (Storia delle istituzioni politiche e giudiziarie) presso il dipartimento di Studi storici dell'Università di Venezia Ca' Foscari. Questa nota biografica è la sintesi di una ricerca condotta dal prof. Povolo da oltre vent'anni sulle tracce del famoso bandito dell'Alta Riviera del Garda presso gli archivi pubblici di Venezia, Brescia, Salò (Archivio della Magnifica Patria) e Gargnano. L'intero complesso delle fonti archivistiche recuperate nel corso della ricerca (centinaia di documenti storici) si trova trascritto, pubblicato ed è liberamente consultabile su web (per accedere selezionate "login come ospite"). I risultati di questa ricerca saranno molto presto condensati in un libro dedicato alla biografia di Zanzanù. Nel frattempo il professor Povolo ha voluto pubblicare sul web questa breve nota biografica anche per evitare che alcuni testi, redatti da biografi improvvisati e non in grado di calare correttanmente la figura di Zanzanù nel perido storico in cui ha operato ed è vissuto, contribuiscano a diffondere, assieme ad alcune informazioni quantomeno fantasiose, una immagine di Zanzanù non rispondente alla verità storica.